Una storia di immigrazione e di tentativi di integrazione, verrebbe da pensare dopo aver letto questo libro. E lo è. Solo che non può semplicemente essere etichettato così. Perché questo romanzo ha una forza narrativa enorme. La storia di Nila, ragazza di 19 anni, e del suo lacerante conflitto tra cercare di sopravvivere nella sua comunità afgana di riferimento e il bisogno di sentirsi integrata nella società tedesca, fatta di luminosa biondezza e di decadente tracotanza, è dura, reale, e ci racconta di quanto la parola integrazione, con il suo richiamo a un’eguaglianza apparente, sia ambivalente, insidiosa. Non si parlerebbe di eguaglianza se non ci fosse una parte di popolazione che è percepita diversa, in carenza e in affanno.
Nila è figlia unica di una coppia afgana, che è emigrata in Germania quando la madre, medico, era incinta di lei. Per poter ottenere il visto, considerato che i medici non venivano fatti uscire dal paese, sul passaporto viene scritto un lavoro diverso. Il fatto di non poter esercitare la professione per la madre è l’inizio di una fortissima depressione, e il fatto invece che la sorella, che l’ha preceduta di pochi anni, sia riuscita a fare il medico oncologo, con conseguente benessere derivante da questo, è una fonte di dolorosa sopportazione. La zia Sara è riuscita a ottenere l’abilitazione in un momento storico diverso, prima che gli immigrati diventassero troppi, indicati come causa ed effetto di nefandezze che capitano sulle spalle dei bravi cittadini tedeschi, in primis gli tolgono il lavoro, e molestano le ragazze.
Questo tipo di narrazione manipolativa condiziona, come un’onda, il cervello di una certa parte della popolazione, e di certo condiziona la vita di chi si sente straniero ovunque. L’integrazione per Nila passa attraverso il rifiuto della realtà di case popolari in cui è cresciuta, del ridimensionamento dei progetti e dei lavori che i suoi genitori sono costretti a fare, a subire in pratica una realtà che si limita ad accoglierli come profughi e come tali continua a trattarli. Nila non indossa il velo e ha comportamenti giudicati inappropriati, al punto che, quando vince una borsa di studio con delle opzioni aperte, i genitori decidono di mandarla in una scuola cattolica interamente femminile. La rabbia di Nila esplode proprio in quell’ambiente asfittico: il suo bisogno di libertà per rifuggire dall’isolamento si concreta in relazioni sessuali consumate velocemente, la droga che è stordente, affascinante e liberatoria. E soprattutto Nila inventa una storia diversa della sua vita. Il suo colorito olivastro e i suoi ricci dichiarano la sua origine non caucasica, e lei sceglie di raccontare a tutte le sue compagne di scuola e alle sue amiche che è greca, non volendo essere identificata con una comunità che percepisce le donne come persone da custodire e nascondere o come appartenente a una comunità in fuga. Tornata a Berlino dopo la fine della scuola deve fare i conti con la morte precoce della madre, lo straniamento del padre e il suo bisogno di non restare confinata nel ruolo subalterno.
La libertà per Nila è decidere chi amare e come e quanto. E questo bisogno passa attraverso il consumo sfrenato di droghe, la frequentazione di squatter nei centri sociali, l’allontanamento dal gruppo familiare, l’adesione alla scena underground berlinese diventa la sua rivincita.
Il suo dolore è un nervo vivo, scoperto, pulsante. E quando incontra un ex promettente scrittore americano, Marlowe, molto più grande di lei, se ne innamora, al punto da immergersi fino al busto in una relazione tossica e violenta. Marlowe è crudele e la porta ad auto degradarsi, e solo quando lei è costretta a confessargli le sue origini, la relazione prende una piega diversa. Per Nila non raccontare la verità significa dirsi che non è condannata a essere vista come una persona da sottovalutare o compatire, significa pensare di avere delle opportunità.
Solo il suo amico Eli, profugo bosniaco, aspirante fotografo, riesce a vederla con tutte le sue contraddizioni, al di là delle storie e delle bugie raccontate, e a condividere con lei il senso di un’esclusione. Ma gli esclusi cercano di integrarsi, e non possono farlo se restano tra loro. Così la comprensione reciproca non basta, e quel momento limpido di condivisione resta solo un attimo magico, destinato a essere unico.
Intanto attorno al loro bel mondo sicuro esplodono attentati contro la comunità afgana, che distruggono negozi e uccidono persone, perpetrati da gruppi armati di neonazisti e la polizia cerca di fornire una narrazione diversa, ingenerando nei cittadini che si tratti di regolamenti di conti tra bande criminali.
Questa è una storia su una ragazza, al bivio tra adolescenza e maturità, ma è anche un pezzo della storia dell’Europa di questi anni, un tempo avvolto da cupezze, dove il benessere viene sostituito dal privilegio e dalla rabbia, dove le istanze di rinascita di gruppi nazisti non si possono ignorare, come nel passato è stato fatto, e il seguito ha dimostrato quanto si avesse torto.
“Quando mi stringeva a quel modo, come se all’improvviso avesse paura di potermi fare del male, mi confondeva. Continuò a pettinarmi i capelli con le dita e a parlarmi della California. A volte ero sicura che ciò che scorreva tra noi fosse reale, che malgrado tutto avrei potuto svelargli chi ero davvero, tutti i miei segreti, e che lui avrebbe continuato ad amarmi. Ma sotto a quella certezza ardeva un nuovo sospetto, il timore che niente di ciò che diceva mi riguardasse, di non contare nulla nemmeno quando mi toccava.
Che le sue mani non stessero cercando me, bensì qualcosa che aveva perso dentro di sé: la luce del mattino, i giacinti del giardino nei quali aveva passeggiato con la madre, i piccoli corsi d’acqua in cui si era lavato le mani dopo una lunga giornata nel bosco”.



