Parliamo di “Quando sono nata ho smesso di essere aria” con Marilena Votta

"La poesia è la mia coccola dell’anima, un tentativo di narrare in maniera veloce, a tratti sincopata, il mondo che mi nasce dentro e che a volte mi frana addosso. Con la poesia catturo la sensazione appena la sento".

Una grafica volutamente semplice, una fotografia nella quale s’intravede una finestra che si apre (o si socchiude?) su un panorama indistinto. Si presenta così il nuovo libro pubblicato da Marilena Votta, Quando sono nata ho smesso di essere aria (Progetto Cultura, 2025), una raccolta di poesie, con prefazione di Alessandra Bava e postfazione di Giorgio Galli. Marilena Votta su queste pagine non ha bisogno di presentazioni eccessive, perché il suo volto e la sua biografia da autrice compaiono tutte le settimane, il lunedì nella sua rubrica di recensioni, che raccoglie in completa libertà creativa i libri che maggiormente la toccano e la coinvolgono. Le trovate qui. Invece per presentare le sue nuove poesie voglio usare una frase dalla postfazione di Giorgio Galli, che parlando di questi versi di Votta scrive: “Perfino l’amore, per quanto pieno e appagante, è frutto di fatica, è un bene duramente conquistato. Un amore meritato, un ennesimo superamento. Usciamo da questa lettura più radicati nella vita”. E questo mi sembra un viatico molto impegnativo e importante per un libro oggi.

 

Marilena Votta, partiamo dall’inizio, dalla dedica: “A Giacomo Caruso / che rischiara le tenebre / con il suo sorriso”.

Giacomo era, e credo sia ancora un poeta, morto durante la prima ondata di Covid, a marzo 2020, e la cosa è stata improvvisa e scioccante, un po’ come l’essere rinchiusi quando tutto sembrava alterato, surreale, come essere dentro un film distopico. Però quella morte, quella perdita, come altre che sono avvenute, era reale. L’ultima volta che l’ho visto era febbraio, quando già di Covid si parlava ma il mondo sembrava ancora un posto in cui organizzare un futuro. Era un momento atmosferico strano, il tramonto dopo le 17.30, il cielo grigio che si tingeva di colori più accesi. E lui mi ha detto che le mie poesie gli piacevano, che gli risuonavano dentro. E così mi è sembrato bello ricordarlo, nel modo che posso fare.

 

Tu scrivi narrativa, racconti e romanzi, ma anche recensioni e poesie, come distingui le varie scritture? Le distingui?

Sinceramente non so se le distinguo. Anche quando scrivo recensioni cerco di mettere in luce l’emozione e il legame emotivo con le parole del libro, con la storia, e a volte anche con la vita nascosta della persona che scrive. Questo per dire che ogni volta che il miracolo delle parole messe in fila crea storie, narrazioni, io provo a seguire la storia, per capire cosa succede. Il romanzo è attualmente sempre la forma più complessa per me, per usare una metafora il romanzo è un assedio, devi stare sempre pronta a scovare falle nella storia e a sistemare sbavature. Quando scrivo un racconto so che devo controllare la sovrabbondanza di parole, perché in un racconto ogni parola racchiude un mondo, e bisogna essere attenti a usare quelle giuste, quelle utili. Una volta mi hai detto che bisogna avere il coraggio di rinunciare a una frase, per quanto bella, se non serve, specialmente in una narrazione breve. Quello che rimane è il necessario.
La poesia è la mia coccola dell’anima, un tentativo di narrare in maniera veloce, a tratti sincopata, il mondo che mi nasce dentro e che a volte mi frana addosso. Con la poesia catturo la sensazione appena la sento. Solitamente le scrivo di getto, e a differenza della narrativa, non le stravolgo mai. Le lascio esistere, libere come le ho scritte.

 

Il titolo, Quando sono nata ho smesso di essere aria, fa pensare a un’energia aerea che si appesantisce quando diventa corpo materiale. Senti il peso del corpo?

Ma certo che sento il peso del corpo, e anche la fatica di essere un corpo. La consistenza materica del corpo è una serie di bisogni che ci condiziona la vita, però è anche una fortuna. Il corpo è un confine e un limite, è la struttura che mette in luce il nostro esserci. Forse non so spiegarlo bene ma ho sempre pensato che avere un corpo è una forma di obbligo, ci sei, devi prendertene cura, perché il corpo condiziona la persona che sei. Dopo averlo sconfessato, vilipeso e trascurato, posso dire di amarlo, con tutti i suoi difetti, i bisogni ai quali devo sottostare per avere la possibilità di camminare, vedere, sentire, urlare, gustare. Questa possibilità, non lo dimentico, è un privilegio, non tutti i corpi hanno le funzioni vitali integre. Quello che voglio raccontare in questo libro è anche la storia di quei corpi, di come l’imperfezione abbia una sua intensa e prodigiosa bellezza.

 

Nell’introduzione, Alessandra Bava scrive che i tuoi sono “versi che ci esortano a guardarci dentro, a esplorare il buio, a intravedere quel raggio luminoso che emerge sempre tra le crepe”, è questo che chiedi alla poesia?

Sì. Anche nella poesia che leggo cerco di trovare la crepa, quel minuscolo spazio che lascia filtrare briciole di luce. Siamo impastati di buio e luce, di acqua torbida e sudore, per capire le nostre contraddizioni dobbiamo vederle. Io amo le mie crepe, non me ne vergogno più, voglio che le ferite siano visibili. Esposte. Immagino che anche le altre persone vogliano essere viste, senza giudizi, senza soluzioni. Non ci sono risposte o soluzioni universali, quando qualcuno ci prova non va sempre benissimo. Credo invece che esista la comprensione, l’empatia. La cosa che posso fare è resistere all’oppressione, ormai sempre più evidente, non più solo lontana e strisciante, raccontando di crepe, di quanto fingere integrità sia pericoloso.

 

C’è un tema che unisce tutti questi versi?

Certo. Lo dico di getto. Il tema è quello di salvarsi la vita, anche quando sei in mare aperto, con una torcia e una barretta. I protagonisti di questa narrazione sono tutt’altro che vincitori, però trovano nell’angolo blu di un cielo d’estate, nel mare che appare dietro la curva all’improvviso, un motivo per non lasciarsi sommergere dal buio. In sostanza sono dei sopravvissuti all’ansia, alla giovinezza feroce, all’amore che scompare, al tradimento di un mondo che ha mentito sulle promesse che ti ha fatto. È quello che è successo un po’ alla mia generazione, nati in un certo agio, abbiamo capito che le sicurezze ci venivano negate. Alcuni si sono smarriti, altri hanno trovato la libertà altrove. Molti hanno fatto i conti con le possibilità e le risorse sempre più scarse.

 

In quale periodo sono nate queste poesie?

Da marzo 2020 fino alla primavera 2025. La primavera è sempre il momento migliore per iniziare un progetto, anche se nel marzo 2020 non avevo chiaro nulla. Scrivevo per superare l’angoscia di un cubo isolato e isolante. La mia casa era il confine di pensieri angoscianti. Certi giorni pensavo che avrei languito per sempre tra il divano e il tavolo, con gli orari di veglia sonno alterati, e mi sarei ritrovata coperta di muffa, la pelle vizza, in un mondo abitato da fantasmi. Incubi.

 

Ho visto che non le hai particolarmente pubblicizzate, devono rimanere un messaggio per pochi?
Non è stato voluto. Quest’estate è piena di notizie allucinanti, di persone arrabbiate e rabbiose, di dolore per le guerre così vicine e che ci coinvolgono. Non riesco a pensare di mettere in mostra il mio libro, e poi ho sempre un certo pudore a parlare di una mia creatura, mi sembra quasi un atto egoriferito che, oggi, volevo evitare. I social danno opportunità incredibili di visibilità e naturalmente sono sempre contenta se le persone mi leggono, magari con questa intervista coglierò l’occasione.

 

Scrivi di essere “Nata senza una storia”, che cosa vuoi dire con questo verso?

Quando sono nata dovevo ancora capire tutto, la mia storia era lì nel tempo da venire, eppure anche ora da adulta mi sento implume come quella bambina che ha faticato a liberarsi dei muchi, e ha rischiato l’asfissia e forse peggio. Mi piace pensare che quando sono stata consegnata al mondo fisico mi è stata data la possibilità di reiventare quel pezzo di territorio che ho abitato, a cominciare dalla campagna dell’agro aversano dove ho imparato la lingua dell’amore dal dialetto di mia nonna. Una lingua che non dimentico, anche se non la parlo più. Naturalmente non siamo mai liberi, neppure alla nascita, ci precedono sempre le storie di chi ci ha preceduto, ce l’abbiamo incise nel DNA. E dal passato, come dice Garcia Marquez, non c’è modo di scappare.

 

C’è un verso che mi ha molto colpito, riguardo alle ferite dei bambini: “La mia infanzia rimbomba / Dappertutto.” Senti che i bambini sono sempre di più a rischio?

I bambini sono sempre le vittime di ogni conflitto, basta aprire una pagina di un giornale a caso. Non hanno difese, dipendono dagli adulti per sopravvivere. Il loro modo di sentire li rende protagonisti delle vicende familiari che subiscono. Un bambino che viene sminuito ha la sensazione di essere picchiato, cioè per lui non c’è differenza tra un colpo fisico e un rimprovero. Si sentirà non amato, e sbagliato, e cercherà di superare la frustrazione del non amore. Per tutta la vita un bambino non amato continuerà a vivere questa doppia vita, accanto alla vita adulta, una vita in loop dove rivive i suoi traumi, nel tentativo, forse, di superarli. Ho scritto anche che ho avuto un’infanzia felice finché non è finita. Parlo sempre di ambivalenza, anche qui. L’infanzia è il territorio emotivo più esposto a smottamenti, è una faglia di Sant’Andrea. Mi dà personalmente molto fastidio quando si romanticizza l’infanzia. L’innocenza dei bambini non è comparabile a quella degli adulti. I bambini spesso sono molto crudeli, e manipolativi ed egoisti. Per capire il mondo di un bambino devi pensare come un bambino. E per un bambino il primo imperativo è la sopravvivenza.

 

Ci sono anche delle poesie dichiaratamente d’amore, no?

Sì, sì. Fino a poco tempo fa ero settata sulla frase, interiore, che l’amore è una disgrazia. Poi è successo un miracolo. Ho incontrato Sergio. Ho imparato che l’amore è cura. È davvero non sentirsi mai isolata dentro le parole del mondo, mai smarrita in una stanza. Lo ha detto Carver: potermi sentire amata sulla Terra. Mi è successo, insieme a tutto il resto, anche questa bellezza trasparente, tremolante, di uno sguardo che non mi cataloga per i mei successi o per i fallimenti. Lui è un vero essere umano. La prima volta che gli ho toccato il braccio ho sentito, con la consapevolezza feroce che avevo da bambina, inspiegabile ma che non ho mai messo in discussione, che non avrei più potuto toccare nessun altro. E questo riconoscersi, trovarsi tra milioni di persone in fuga, in corsa, in fondo è una grazia, sperando di non sembrare condiscendente con questa parola, però è quello che è.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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